lunedì 29 aprile 2013

Famiglia a Km zero

Sono tornata a casa da meno di dodici ore, dopo un finesettimana umbro che ha permesso la reunion familiare con mio fratello e i miei genitori.
Ho realizzato che sono passati dieci anni da quando ho lasciato la calabra casa dei miei per trasformarmi in una studentessa fuorisede. Prima di me, già mio fratello l'aveva fatto e io me lo ricordo, mi ricordo del suo trasloco verso Perugia, mentre io cominciavo l'avventura (che mi sembrava gigantesca) delle scuole medie. E mi ricordo che già allora pensavo: verrà il mio turno, me ne andrò. Lo pensavo con un filo di speranza e di aspettativa, un orizzonte che si è trasformato in insofferenza negli anni adolescenti, in un non vedere l'ora che accada.
Sono passati dieci anni da quando ho deciso la destinazione - Roma - e ho concretizzato il viaggio. Da allora, è stato tutto un prenota i biglietti, fai le valigie, programma le vacanze con mesi di anticipo, telefona, telefona spesso, almeno una volta al giorno, raccontami cosa succede a casa, e tu come stai? che hai fatto oggi? niente.
Non è facile raccontare la quotidianità ignorando le centinaia di chilometri che ci separano.
E se fino a qualche anno fa non mi sembrava poi un problema insormontabile, che le cose da fare, da scoprire erano talmente tante, e talmente nuove, e più belle, più allettanti, adesso no, mi rendo conto che non è più così.
Mi rendo conto che ci sono giorni, ci sono domeniche in cui vorrei avere la spensieratezza, la Facilità, di dire a mia madre: vieni a pranzo da me? Di chiamare mio fratello e dirgli: passo un attimo. Di non dover rispondere un "niente" strascicato, quando ci vediamo tutti insieme e mi chiedono "che novità ci sono?". Non è reale, quel "niente". Non è così. Ma la routine, la vita di giorni non per forza speciali non la racconti facilmente in due frasi. E, soprattutto, non è così che la vorrei condividere.
Ho voglia, ogni tanto, di una famiglia a chilometro zero.
Che poi lo so benissimo che mi starebbe stretta dopo poco, che magari l'ingerenza della vicinanza mi farebbe venire pruriti uguali e contrari a questa nostalgia, nostalgia canaglia.
Ma, per favore, un compromesso non si potrebbe avere? Una dimensione in cui non devo misurare il tempo dopo pranzo con lo spauracchio di dover ripartire subito, che sennò a Torino quando ci arrivi? C'è il traffico del rientro.
Ecco. Ci sono volte come questa in cui invidio fortissimamente le persone che hanno deciso, che sono riuscite a restare negli stessi 5 km quadrati che li hanno visti nascere e crescere e che stanno bene così, che se la godono.
Ma vogliamo complicarci la vita? Complichiamocela: l'altro pezzo di famiglia, quella del consorte, sta ancora più lontano, oltre lo stretto. E li senti, che stanno tutti insieme, che si vedono crescere e cambiare poco a poco e lo vedo, nei suoi occhi, che è come stare a guardare una festa da dietro i vetri, essere invitato ma non riuscire a raggiungerli.
E poi ci siamo noi due, che dopo sette anni di distanze abbiamo creato con fatica un nido comune qui, sotto le Alpi, da soli. Ed è comodo e caldo, è accogliente, è sicuro, è bello.
E' sufficiente.
Quasi sempre.

giovedì 25 aprile 2013

Rosso (mogano intenso)

Mi sono tinta i capelli di rosso.
In verità, lo faccio già da qualche anno, ma ultimamente la "primavera" di capelli argentei sbocciata sul mio cranio 27enne si è fatta altresì ingovernabile e, dunque, l'intervento mascherante si è reso necessario più di frequente.
Perché di rosso?
Per motivi estetici, senza dubbio, ché il castano è anonimo, il nero è triste e il biondo... beh, il biondo non fa per me! Il rosso, invece, mi dà carattere.
E per motivi anche un po' simbolici.
Io sono rossa.
Rossa come il sugo della domenica, che ci fai la scarpetta e poi ti rimane agli angoli della bocca.
Rossa come i mobili del mio soggiorno, che danno allegria e rendono la casa più accogliente.
Rossa come il sangue, che non mi ha mai fatto impressione.
Rossa come le ciliegie di maggio, che mangio in modo compulsivo.
Rossa come un rossetto che non ho mai il coraggio di mettere.
Rossa come le bandiere del 25 aprile.

Ecco. Parliamone.
"Sei di sinistra?". Sì. Senza se e senza ma. Da sempre, e con convinzione, con rabbia quasi sempre, ché raramente le ideologie che condivido guidano i movimenti di questa nazione cha abito.
So cosa rappresenta il 25 aprile. Ma da un po' di tempo mi sono ritrovata a pensare: "se succedesse oggi, sarei pronta a giustificare tutta la violenza che c'è stata, anche in funzione di una causa così giusta, così necessaria?". Non lo so, davvero. Mi ripeto che erano altri tempi, che c'era dietro una guerra e una dittatura, due eventi così enormi e tragici che a stento riesco a immaginare il livello di disperazione e di stanchezza che la gente di questo Paese potesse avere raggiunto. 
E poi ancora: non è forse stata meglio quell'azione, quel volersi muovere anche rischiando la vita e sacrificando quella di altri, rispetto al balletto della dialettica politica di oggi, che continua ad attorcigliare le parole pur di non passare ai fatti, rispetto a questo sempre più nauseante principio di diplomazia che rende impossibile qualunque cambiamento e sposta il livello di sopportazione sempre un po' più in là?
Ma anche: noi, che abbiamo l'età che avevano i partigiani sessant'anni fa, noi, che non abbiamo una bandiera sotto la quale riconoscerci tutti e neanche un'identità di classe, noi: ne saremmo capaci realmente
Ancora una volta, non lo so. 
Sono rossa, di cuore, di testa e di rabbia.
E di capelli, of course
Ma rosso vivo... no: non ne ho il coraggio, né la sfrontatezza. 
Con più dubbi e più timidamente, rosso mogano intenso.

lunedì 22 aprile 2013

Intolleranze

Tu, dipendente statale da 1900 euro al mese che passi la metà del tempo a non fare niente e ti lamenti che ti hanno bloccato facebook.
Tu, automobilista torinese, possessore di qualsivoglia veicolo - dal pandino al Freemont - che usi le quattro frecce come panacea a qualunque infrazione: se ti fermi in doppia fila senza accostare per portare tuo figlio fin dentro la scuola elementare; se invadi la pista ciclabile come se niente fosse; se vuoi posteggiare a destra, ma anche a sinistra (vuoi lasciare la suspance fino alla fine?).
Tu, che sei arrivata agli anta senza un filo di grasso e col culo in sospensione, e posti le tue foto seminuda e status su quanto sia difficile resistere alla nutella, sperando implicitamente che il resto del mondo alimenti la tua autostima.
Tu, che continui a fare la stessa battuta da mesi, aspettandoti sempre da me il sorriso complice.
Tu, che sei stata precaria per dieci anni e ora che hai il posto fisso ti lamenti con me di quanto esigui siano i buoni pasto.
Tu, signora bene dell'ufficio vendite del palazzo in costruzione, che alla mia faccia basita per la richiesta di 250000 euro per 75 metri quadri, rispondi accendendoti una sigaretta sorridente e dichiarando che proprio stamattina hai ricevuto l'assegno di 600000 euro per il superattico senza tutte queste storie.
Tu, che ti dichiari anarchico ma se succede qualcosa chiami la polizia.
Tu, che commenti qualsiasi articolo di politica col tono saccente di chi ha la verità in tasca e la polemica sempre pronta.
Tu, che se ti dico "Alice in Wonderland" pensi a Tim Burton.
Tu, che fai rombare la motocicletta alle due di notte al semaforo sotto casa.
Tu, che mi fai tanti complimenti su quanto sono brava e preparata e mi paghi 5 euro all'ora.
Tu, che hai preso una laurea col calcio in culo e subito dopo hai potuto scegliere fra tre o quattro posti di lavoro a tempo indeterminato.
Tu, che non hai mai letto un libro.
Tu, che sei piemontese e chiami 'terrone' il tuo amico piemontese come te e poi mi dici "ma stavo scherzando".
Tu, che fai i video nostalgici sugli anni '80 e '90 e sospiri su quanto sia stato bello avere un'infanzia con le ginocchia sbucciate, non come i bambini di adesso, che non sanno cosa si sono persi.
Tu, che ti fai le foto mentre fotografi.
Tu, che sbagli i congiuntivi.
Tu, che non ricambi il saluto.
Tu, che ti offendi se non partecipo al tuo gioco idiota.
Tu, che spari la musica a palla sul tuo cellulare mentre siamo sul tram.
Tu, che salti la fila.

Tu.
Ecco, tu.
Come dire.
Mi stai - generosamente - sulle palle.

venerdì 19 aprile 2013

L'incubo ricorrente

E' successo di nuovo.
Sono passati forse dieci anni dalla prima volta, eppure continua a succedere con frequenze scostanti.
L'incubo ricorrente.
Tutti ne hanno uno, no? Il mio torna a trovarmi ogni volta che l'inquietudine e l'ansia piantano l'assedio: di giorno riesco - cinicamente - a ricacciarle oltre il fossato del castello, a sopirle quasi del tutto; di notte, semplicemente no. Che vigliacche.
Ogni volta, c'è lei nella sala grande piena di specchi, il linoleum sul pavimento e i molti neon sul soffitto; in un angolo, lo stereo. Lei, piccola e magrissima, i capelli lunghi e sciolti, l'abbigliamento tipico della transizione fra gli anni '80 e i '90. Lei, immancabilmente, fa partire la musica.
Ritorno nella scuola di danza.
Lei è la mia istruttrice, quella che ha riempito i miei trepomeriggiasettimana per dodici - DODICI - anni, dai 4 ai 16, quella a cui ho voluto bene semplicemente perché non mi ha imposto la disciplina che si immagina obbligatoria quando si parla di balletti, perché le lezioni non erano scandite dalle melodie del Lago dei Cigni, né dal rosa dei tutù, ma da anfibi, pantaloni larghi e ritmi hiphop. Una culla dove crescere senza dare troppo peso alla propria inadeguatezza fisica.
E poi, ci sono loro: le mie compagne di corso. Nell'involuzione del sogno, sono sempre preparate e a tempo, mentre io - c'è bisogno di dirlo? - sempre in ritardo, mi sono persa qualcosa, una sequenza di passi, un'esibizione che sta per cominciare e non so dove stare.
Loro, nella realtà, non si sono mai risparmiate. Sempre issime: magrissime, fichissime, bravissime, corteggiatissime. No, io no. Sempre, in un modo o nell'altro, fuori dal gruppo. Cattivissime. Che, quando sei teen, viene particolarmente facile. Per carità, ce ne sono state altre come me, ma io ho il primato di resistenza: dodici - DODICI - anni. E, alla fine, ho mollato. Con la morte nel cuore e con lo zuccherino del pensiero che dopo un anno comunque avrei cambiato città, e avrei in ogni caso lasciato quel posto familiare come la mia stanza.

Non ci vuole Freud per capire.
E temo che non lo supererò mai. Che questo spauracchio onirico di magoni inespressi e autostime labili mi accompagnerà sempre, nonostante le soddisfazioni più o meno grandi, le sicurezze e gli affetti più stabili, i punti forti più valorizzati, i complimenti più sinceri.

Mi sono svegliata di soprassalto ed erano le 6 di mattina. Il vicino di casa - il neonazista che di lavoro fa la guardia notturna - stava rientrando, col consueto strascico di insulti alla madre e alla nonna e di rumori non necessari ed incivili.
Ma stavolta non l'ho maledetto.

mercoledì 17 aprile 2013

Di bizzarrie domenicali: Torinocomics

Domenica scorsa sono stata qui.
E' da premettere che io non sono né un'appassionata di manga, né di anime (se si eccettuano le canoniche serie di Bim Bum Bam dei ridenti anni '90), quindi si potrebbe pensare: "Che sferedeldrago ci sei andata a fare?". E infatti me lo sono chiesta anch'io, e la risposta più lucida e plausibile è che mi sono data è: vado a sfottere i cosplayer.
Mo', per chi non lo sapesse, i cosplayer sono quelli che - per diporto o malattia mentale congenita - si vestono come i personaggi dei cartoni animati, o dei fumetti, o dei videogiochi (se volete una descrizione seria c'è wikipedia, anche se io ritengo assai più pertinente e veritiera questa). Voi capite che l'occasione di poterli vedere dal vivo e addirittura assistere a una competizione era troppo ghiotta.
Una cosa, però, va precisata: per apprezzare fino in fondo la situazione e soprattutto per godere appieno del dileggio dei travestiti comicaddicted bisogna avere un po' di cultura di settore, nel senso che se non riconosci i personaggi ai quali le maschere si ispirano rischi di aggirarti confuso nella folla guardando a destra e a manca senza saper dirigere la tua attenzione e anzi, vergognandoti pure un po' peril tuo tentativo malriuscito di mimetizzarti nel gruppo. Quindi, vista la premessa, all'arrivo ero piuttosto incerta sull'esito del mio progetto, ma devo dire che i miei timori si sono dissolti abbastanza presto, su per giù quando ho visto un Batman con la panza attraversare la strada e le guerriere Sailor fare la fila per il biglietto proprio davanti a me.
Ho visto di tutto e ho fotografato di più, ho sfogliato fumetti accanto a V (per Vendetta) e chiesto a Vegeta se per favore spostava un po' il ciuffo da Super Sayan che mi copriva la visuale del palco; ho sbeffeggiato i presentatori della gara (rispettivamente Gilderoy Allock di Harry Potter e il draghetto Spyro del gioco della Playstation) e ho fermato per una foto il "Gruppo Azkaban" dei Potteriani (nell'ordine: un dissennatore, un mangiamorte, un lupo mannaro, due serpeverde e un dipendente del Ministero della Magia) ma dovendo proprio selezionare una rosa di immagini da consegnare all'imperitura memoria del web, sceglierei:


- il Gruppo Heidi: tutti rigorosamente maschi (e pelosi):


 - Pegasus con gli occhiali: perché bisogna avere coscienza dei propri limiti, prima di espandere il proprio cosmo fino ai limiti estremi della costellazione...
 

- Biancaneve con i piedi gonfi: se ti metti i tacchi a spillo per fare la splendida, dimenticando che magari la foresta dei nani non era proprio la passerella di Milano Fashion Week, poi non ti lamentare...
 

Però però... Sarà che erano tutti contenti e divertiti, sarà che io mi sentivo un po' un pesce fuor d'acqua, sarà pure che da bambina Carnevale e i cartoni mi piacevano assai... quasi quasi la prossima volta ci provo anch'io!
E ho già in mente il personaggio... huhuhu...

domenica 14 aprile 2013

Le cose che amo di Torino/Il Parco della Pellerina

Torino ha colori variabili. Si spostano con gli equinozi e i solstizi e stupiscono, quando escono dai nascondigli dei palazzi savoiardi e dei cavi elettrici dei tram.
Succede che da un giorno all'altro si impongano azzurri violenti a riempire gli occhi, poco o niente abituati alla luce, ancora ingrigiti dai diluvi e dalle nebbie e dall'aria gelata, e straccino il confine fra inverno e primavera, fra verde e bianco, fra vita e morte.


Non ancora foglie, ma in fondo, là in fondo, uno spruzzo di giallo, più vicino il viola di una cartolina di montagna


Mi stendo, chiudo gli occhi: non c'è il rumore del traffico, non c'è la puzza dello smog, non c'è il brusio del chiuso delle case. Sento l'erba frusciare e un cinguettio indistinto e ancora, più giù, di sottofondo, il rumore della Dora che scorre impetuosa. Se mi sforzo, mi arriva l'odore di umido dell'acqua dolce e il ronzio dei moscerini che sciamano a nubi.

Sono stesa supina, apro gli occhi: è un panno celeste compatto, rigato da solchi grigio scuro e marrone, distorti e diseguali, forti, coerenti, fratttali






Rotolo a pancia sotto, riscopro il contatto col suolo sconnesso, una, due formiche sul mio plaid arancione e di nuovo, più forte, più vicino di prima, il verde dell'erba, il giallo di un fiore


Un'ora, due ore, il cibo, il gioco, il sonno. Il sole, a riempire di caldo i miei jeans. Il pomeriggio si allunga, a Torino, ben oltre le otto di sera. Sarà così fino a giugno. E continua ogni volta a ricordarmi fatalmente l'agosto calabrese, quando il tramonto oltre le colline della costa jonica segna la fine del tempo di stare sulla spiaggia; ancora un bagno, poi basta.




E mi costa ogni volta, nonostante tutto, contare le differenze.

giovedì 11 aprile 2013

Un Post quasi d'Amore

Che vuol dire - prendendo a prestito Guccini e la sua quasi omonima Canzone quasi d'amore - "non starò più a cercare parole che non trovo / per dirti cose vecchie con il vestito nuovo", ovvero, fuor di metafora, non ho intenzione di colmare il buco di 14 mesi che si staglia fra questo post e il suo più recente compagno con un riassunto in html di ciò che è successo nell'intanto. 
Che tanto, a me non va e ai più non gliene frega poi molto. 
Dice "Ma allora perché sei tornata?" 
Eh, bella domanda. 
Perché mi è successo più volte e ultimamente con una certa, sintomatica frequenza, di vedere o pensare a cose che capitano e che mi capitano e di sentire un istinto cerebrale che arriva da lontano, una voglia, no una volontà, una voce ben chiara nella testa che dice: Scrivine. 
Dice "Ma allora perché sei stata via 14 mesi?" 
Perché, perché... perché, come in tutte le relazioni emotive, ci sono stati momenti di noia, di falsa o nulla ispirazione, di disaffezione pure, diciamocelo. E perché la costanza è difficile da avere, il tempo non c'è mai quando ne avresti bisogno o ce n'è tanto da farti sentire in colpa, e perché non becchi l'attimo fuggente, perché ti dà fastidio vederti scritta, perché arriva la pigrizia. 
Un po' come quando devo prendere la bici e magari il tempo promette pioggia: non ne ho voglia, sulle prime, ma poi, col vento in faccia, la temperatura giusta che non ti fa avere freddo ma neanche sudare, la poca gente per strada, alla fine mi sento bene, mi sento meglio. Meglio di prima. 
Dice "See vabbè, non me la conti giusta..." 
Ok, ok, c'è dell'altro. C'è che fra i mille lavori più o meno impegantivi e soddisfacenti che faccio, uno in particolare si caratterizza per la presenza indomita, estenuante e monolitica di tempi morti. Quintali di secondi che devo passare in attesa e allora che faccio? Sbircio siti qui e lì, leggo, mi informo, il più delle volte semplicemente cazzeggio curiosando nei blog altrui, e quello che è successo è che mi è salita su un'invidia grassa e un'ansia di esserci anch'io, di tornare a esserci anch'io, perché checcavolo io un blog ce l'ho da quel dì ed è ora di ridargli una dignità, sia pure minima e superflua, ché un blog di più non è che possa sperare. 
E poi c'è la vanità, oh la pura e malcelata vanità! Quella che mi fa godere nel prendere forma in parole scritte, e si amplifica nel saperle lette, e si culla nel rileggersi... Così è: ad altri la nicotina, a me questo! 
Mi piace avere la possibilità di arredare questo spazio, questo posto. 
Un Post(o) quasi d'Amore.