martedì 27 gennaio 2015

La memoria del giorno

"Valeriu', che stanno costruendo là?"
"E' un hotel, nonna"
"Bello! Mi sembrava una banca, però..."
"..."
"Valeriu'?
"Dimmi, nonna"
"Ma stanno costruendo una banca là?"
"No, nonna, è un hotel".

Mia nonna stira da dio. Se le dai una camicia comincia a svaporare di su, di giù, di lato, te la ripiega che manco quando è uscita dal negozio e quasi quasi ti pare male ad indossarla e sgualcirla di nuovo.
E' nata il 21 marzo del 1921, il giorno di inizio della primavera, prima femmina dopo tre figli maschi, era la Domenica delle Palme e per questo motivo le hanno dato un nome bizzarro: Irma Palma Maria.
E' alta per la sua generazione, quando esce in paese con le amiche deve camminare giù dal marciapiede, sennò si nota troppo la differenza.

"L'anello, l'anello con l'acquamarina, che fine ha fatto?"
"Dove l'hai messo?"
"Me l'ha preso qualcuno"
"Non ti ricordi dove l'hai messo?"
"Io non l'ho messo da nessuna parte"
E' qui. Appeso al polso di una delle mie bambole.

Mia nonna lavorava, da ragazza. Era impiegata all'anagrafe fascista, assegnava i ragazzini ai gruppi decisi dal duce in base all'età: giovani balilla, figli della lupa. Stipendio mensile: 300 lire.

"Venga signora, le faccio lo shampoo"
"Mio fratello Pepè mi fa ballare. Quando facciamo le piroette mi gira tutta la gonna! Valeriu' tieni, vammi a comprare le calze"
"Nonna, sono 50 lire..."
"E portami il resto".

Quando smette di passare la lucidatrice, prima che cominci la Ruota della Fortuna, mia nonna prende gli album delle fotografie della sua famiglia e mi racconta le storie del suo passato.
La memoria è una cosa importante. Non va sciupata. Va conservata, alimentata. Tramandata.

"E questo chi è?"
"Mio fratello Mario. Era bravissimo con i giochi di parole, le sciarade, i cruciverba. E scriveva poesie"
"E questo?"
"Lui è mio fratello Antonio. E' morto di tifo a quattordici anni. Le grida di mia madre ancora me le ricordo..."

Quando vengono a prendermi, Schindler's List è iniziato da poco. Hanno allestito una specie di sala cinema nella palestra della scuola per farci entrare tutte le terze classi del liceo. Sono ospite da mia zia, in questi giorni, perché i miei sono a Genova per vedere un medico che capisca qualcosa della malattia di mia madre, ma io non sono preoccupata: andrà bene.

"Dov'è?"
"Non lo so, è andata a buttare la spazzatura e non è rientrata!"
"Dobbiamo cercarla"
"Mamma, ma dove eri finita?"
"..."

Io mi ricordo gli occhi di mio cugino, fuori dalla palestra. E' venuto lui. Non c'è bisogno di dire niente, lo capisco in un istante, guardandolo. Non ho niente da dire. Solo un formicolio che parte dalla punta delle dita, e sale nello stomaco, alla gola, agli angoli degli occhi. Non so fare niente.

"Mamma, guardami, mi riconosci? Sono tua figlia!"
"Mia figlia? No, tu non sei mia figlia... Mia figlia è bellissima!"

Il brodo e la cioccolata calda. Io non lo so perché, ma tutte le volte è così: portano il brodo e la cioccolata calda. Dice che quando muore qualcuno si usa. Ho chiesto di tornare a casa mia. Sono da sola. I miei, nel frattempo, sono sull'aereo del ritorno. Io mi chiudo in casa, non rispondo al telefono, guardo un film. Metto la musica di Tracy Chapman, che mi pare adatta. Sono un'adolescente che ama scrivere. Scrivo. Esorcizzo. Ricordo mia nonna.

Gli ultimi mesi non era più lei. Siamo andati a salutarla per l'ultima volta almeno tre volte.
Che cosa buffa.
Salutare una persona pensando che sarà l'ultima volta che la vedi viva.
Si è rimpicciolita. Non è più tanto alta. Mi sembra inverosimile.

Bizzarra, alle volte, la vita.
Mia nonna, per dire, che decide di morire di Alzheimer giusto il giorno della Memoria.
Fa quasi ridere, detta così.

Io lo so che non è giusto, che non è storicamente corretto, che non è ortodosso.
Eppure.
Più ci penso, più non mi sembra possibile un'altra via.

Che non è così assurdo ricondurre le tragedie universali ai propri, intimi terremoti emotivi.
Che forse il modo giusto per capirla, la storia, è guardarla attraverso la lente di ciò che noi viviamo.
Introiettare gli eventi personalizzandoli.

Comprendere a fondo cosa significa avere paura di perdere tutto, la propria famiglia, la propria identità, i propri ricordi.

Per me è questo, oggi.
L'immagine che ho negli occhi, quattordici anni dopo la sua morte.
Ha il colore dei suoi capelli biondi, quando ancora erano biondi.
Ha l'odore del ferro da stiro, quando ancora riusciva a stare in piedi.
Ha la consistenza della cipria, quando ancora la custodiva gelosamente nell'anta destra dell'armadio.
Ha il gusto di pane, olio e pomodoro, quando ancora me lo preparava, i pomeriggi dei miei sette-otto-nove anni.
La mia memoria, il mio ricordo, oggi, è solo questo.
La voce dei suoi ricordi, quando ancora li aveva tutti, e me li regalava.


domenica 25 gennaio 2015

Mingalabar

Vuol dire "Buongiorno", ma anche "Benvenuto", e "Arrivederci", "Grazie", "Buona fortuna".
Arriviamo e fa caldo, un caldo di quelli che ho visto solo in Sicilia, in certi agosti aggressivi, saturo di umidità e con colonnine che segnano +37°, almeno.
La nostra guida si chiama Win, parla italiano e inglese, oltre al birmano, ovviamente, ci accoglie con un gran sorriso: "Benvenuti in Myanmar!", ci dice.

Il primo posto è Yangon, la capitale, o meglio quella che è stata la capitale fino a pochi anni fa, perché ora la capitale ufficiale è Naypyidaw, la 'città nuova', costruita apposta per contenere tutti gli uffici amministrativi e politici dello Stato, lontano dal mare - si sa mai gli Stati Uniti decidano di attaccare con la flotta.
Yangon è piena di gente, c'è un gran traffico di motorini, furgoni carichi di gente ("sono gli autobus", ci dice Win), automobili con il volante a destra, all'inglese, nonostante la guida sia come quella italiana: "retaggio del vecchio impero colonialista", ci dice Win, mentre sfioriamo un incidente ogni dieci secondi, ché gli specchietti retrovisori non fanno miracoli.
"Ora camminiamo a piedi", altrimenti la città neanche la vedi, è vero.
Ci hanno raccomandato di non mangiare il cibo di strada, ora capisco perché: ai banchetti alimentari, l'acqua ha sempre una bella sfumatura marroncina e gli odori delle cucine sono pungenti, troppo.
I birmani sono persone sottili, si muovono con gesti lenti, aggraziati, larghi lo stretto indispensabile.
"Pensate all'Italia di 80 anni fa", ci dice Win. Che poi lui non c'è mai stato in Italia. Vabbè.


Prima di partire ho cercato di sapere qualcosa in più su questo Paese, sulla sua storia e sulla sua cultura. Fino a pochi anni fa non è che ci potevi venire facilmente, in Birmania. La dittatura militare osteggiava il turismo, gli stranieri meno sapevano meglio era. Poi è arrivata lei, la Signora, la Lady. Provo ad accennare l'argomento a Win, ma sono un po' restia: non so come può reagire ai temi di politica. Lui si apre in un sorriso che mostra i denti macchiati di rosso per il betel che mastica tutto il giorno, gli occhi si illuminano quando parla della Signora, Aung San Suu Kyi. Lei è il volto della ribellione alla dittatura, il volto della lotta pacifica, una goccia che ha scavato la roccia per più di vent'anni, dal chiuso della sua casa qui, a Yangon, la sua prigione. Agli arresti domiciliari per gran parte della sua vita, senza poter vedere il marito e i figli, rimasti in Inghilterra - lui ha fatto in tempo a morire di cancro - senza poter andare a ritirare il Nobel per la pace, nel 1991. Ha usato tutto il premio per finanziare la costruzione di scuole e di ospedali, qui in Myanmar.
La adorano tutti, letteralmente. Alle passate elezioni il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, ha preso qualcosa come l'80% dei voti. Elezioni dichiarate nulle dalla giunta militare.
Quest'anno c'è il nuovo turno, quest'anno andrà bene, è la volta buona, ci dice Win.
Quello che so è che la dittatura militare birmana è stata una delle più violente degli ultimi cinquant'anni, quella che - per dire - ha ordinato di sparare sui monaci buddhisti che manifestavano pacificamente, nel 2007. Racconto a Win che me lo ricordo: io ero a Roma all'università e tutti si vestivano di arancione per testimoniare solidarietà al popolo birmano. Lui sorride, sorride sempre, anche mentre mi racconta che all'epoca si trovò a dover fuggire con il gruppo di turisti che stava accompagnando come noi in giro per il Paese, perché le ambasciate avevano declinato le responsabilità e l'impegno a proteggere gli stranieri, sorride anche quando mi racconta dei suoi sei mesi in prigione, alla fine degli anni ottanta, quando il movimento non violento della Signora era all'inizio. Sorride e io non so come faccia.
Ma qui tutti sorridono, tutti prendono la vita guardando al buono che c'è, al poco di luminoso, di prezioso che riescono a rintracciare in una quotidianità fatta di povertà, di scarsi servizi, di libertà limitata.
Win mi dice che a lui è andata bene. Ci sono stati suoi compagni di università che per una manifestazione hanno fatto due, tre, dieci anni di prigione. Mentre ci muoviamo per il Paese, da una città all'altra, lui si ferma in un negozio, in una bottega di artigiani, parla con i titolari e con gli operai per portare notizie dalla metropoli, aggiornamenti e speranze.

E' quasi sera quando arriviamo alla meta principale qui a Yangon, la Shwedagon Pagoda.
Dobbiamo toglierci le scarpe e le calze: nei templi buddisti si entra solo a piedi nudi, è un modo per testimoniare che tutti gli uomini sono uguali, a prescindere dallo stato sociale, culturale, economico.
Ho sempre avuto in testa l'idea che i templi buddhisti fossero simili alle nostre chiese: posti silenziosi, spirituali, quasi trascendenti. Tutto sbagliato: qui la religiosità è routine quotidiana, pregare è come parlare e camminare, ogni momento è buono e non c'è bisogno alcuno di ritagliare spazi di concentrazione mentale condivisi: ciascuno fa da solo, anche se intorno c'è il caos.





La pagoda è una gigantesca piazza piena di persone che camminano, si inginocchiano, attaccano foglie d'oro e orchidee alle statue del buddha, recitano versi in lingue antiche, fanno l'elemosina ai monaci. Mi stravolge la contrapposizione fra l'opulenza di questo monumento e la povertà delle persone che brulicano al suo interno, eppure sono loro ad alimentarla, con le offerte continue in soldi e in materia. A questo non possono rinunciare.

La mattina dopo siamo a Bagan, la città dei duemila stupa. Una sorta di gigantesca Valle dei Templi di Agrigento, ma al posto delle colonne greche ci sono templi buddhisti costruiti nel medioevo e abbandonati nel corso del tempo, fino a quando - pochi anni fa - questo posto è diventato sito di interesse archeologico e studiosi ed equipe di restauratori di tutto il mondo hanno investito tempo e risorse per recuperarlo.
Bagan è spazio vuoto, sterminato. Non ci sono le strade affollate di Yangon, non ci sono i palazzi alti e fatiscenti. Ci sono villaggi, mercati, zebù. Le donne si truccano tutte con una strana pasta gialla che serve per proteggere dal sole e per prevenire le rughe. In un villaggio una signora anziana ci saluta con trasporto: siamo noi gli intrusi qui, è evidente, ma l'ospitalità è sacra, la gentilezza è un gesto naturale. I suoi due figli, entrambi laureati, sono tornati qui per dare una mano all'attività di famiglia: costruire oggetti di bambù e resina da vendere ai turisti e agli hotel.




Questo viaggio sta incrinando i miei concetti di lavoro, soddisfazione, ansia, stress, felicità.





A Mandalay c'è uno dei più grandi monasteri della Birmania e uno dei pochi in cui sono ammessi visitatori "laici". Qui in Birmania è usanza comune mandare i propri figli, verso i dodici anni, a fare l'esperienza della vita del monaco, per almeno sei mesi. Win dice che per suo figlio sta aspettando l'anno prossimo. I monaci si svegliano all'alba, indossano una tunica rossa o arancione che gli viene tassativamente donata, così come il cibo che possono mangiare (ma non cucinare) altrettanto tassativamente entro mezzogiorno. Il resto è preghiera, vita eremitica, contemplazione silenziosa e lontana dal mondo. Per tanti ragazzi, il monastero è l'unica strada possibile per ricevere un'istruzione, così spesso succede che i sei mesi di prova si trasformano in una scelta di vita definitiva. I monaci sono comunque sul gradino più alto della scala sociale. E sono incredibilmente ragazzini.




L'ultima tappa del nostro viaggio è il Lago Inle, nel nord del paese. Qui fa più fresco, ma il sole brucia la pelle più che altrove. Le strade e le ferrovie, in Birmania, sono terribili. Percorrere un percorso di poche centinaia di Km può voler dire impiegare una decina di ore di viaggio, sobbalzando continuamente da uno sterrato all'altro. Per questo motivo, per spostarsi da un posto all'altro conviene prendere l'aereo: i voli durano al più una mezzoretta e lo stesso velivolo, un po' come un treno o un pullman, fa varie fermate intermedie per far scendere e salire i viaggiatori lungo un'unica tratta. Per la stessa ragione, anche sul lago gli spostamenti via terra sono evitati il più possibile, molto meglio salire in barca e percorrere il tragitto via acqua.

Le lance dei pescatori del Lago Inle sono un miracolo di equlibrio. Fanno salire anche noi su una di queste imbarcazioni, opportunamente resa più confortevole da sedie da giardino inchiodate all'interno dello scafo e rivestite da cuscini colorati - siamo turisti, ci trattano bene e soprattutto sanno che difficilmente saremmo capaci di non finire a mollo entro pochi secondi, se non ci dessero una mano loro. I pescatori remano restando all'impiedi sulla prua, con il remo lungo incastrato fra ginocchio e caviglia, come se fossero su un monopattino galleggiante. In questo modo riescono ad avere le mani libere per amministrare le reti. Sembrano aironi dal baricentro perfetto.



Il lago è sterminato, trovarcisi in mezzo senza riuscire a vedere altro che acqua e giunchi, fino all'orizzonte, dà le vertigini. Gli abitanti del posto vivono in simbiosi con l'acqua: le abitazioni sono palafitte, ogni famiglia ha almeno una barca, in acqua si svolgono le cerimonie religiose, la vita sociale, le compravendite.




Il silenzio che c'è, la sera.
La distanza da tutto il resto, da tutto ciò che conosco e riconosco come consueto, normale.
Quanto mi destabilizza, quanto mi riempie.

La luce, la luce opalescente che ammanta tutto, quando piove sul lago, irradia e raddoppia le immagini, senza più orizzonti, senza elementi alieni di disturbo.




Cosa mi resta?
Cosa mi salva, cosa ho salvato, dopo quasi quattro mesi?

La meraviglia, l'incanto, lo stupore,
avere negli occhi pezzi di umanità diversi, diversi davvero,
sapere che è possibile vivere in maniera differente,
con altri problemi, altre priorità,
aver incrociato sguardi e sorrisi e colori che mai prima d'ora ho agganciato e forse mai più rivedrò,
la pace ed il caos,
la guerra e la pazienza,
la cantilena e il silenzio,
il riso e la nafta,
i fiori,
i capelli raccolti,
le fotografie della Lady appese in tutti i locali,
la speranza,

la voglia di guardare più oltre, al futuro, a superare d'un balzo finanche l'immaginazione, la mia limitata creatività, pensare che si può migliorare e dare bellezza ai dettagli,
ai momenti,
alle piccole, minime cose.

Mingalabar.



lunedì 19 gennaio 2015

Buona idea, Cattiva idea #11



Buona idea: per far fronte al Blue Monday, regalarsi un bicchiere di rosso, a pranzo.

Cattiva idea: per la depressione da Blue Monday, non dire di no al secondo bicchiere di rosso, a pranzo, e dover affrontare poi un pomeriggio di lavoro che prevede calcoli difficili, precisione e concentrazione.

martedì 13 gennaio 2015

Stream of Consciousness

Difficile a dire consciousness consciousnss conciou cons maledetto treno che barcolla e mi fa sbagliare i tasti maledetta base d'appoggio instabile benedetto il mio ultrabook supersottile e superleggero (ma che bel giocattolino che mi sono regalata) l'ho comprato per poter andare e venire andare e venire e avere l'agio la tranquillità il tempo e la voglia di saltabeccare nell'internet oh gaudio oh divertimento oh povere pupille mie già così stanche ché son le seiemmezza di sera e ancora non rinunci a ticcheggiare e touchscreenare manco mentre torni a casa - casa casa casa un plaid un divano l'ennesimo episodio di grey's anathomy (a tutti gli effetti è diventato una droga) e più ci penso più mi dico è un anno oggi è un anno il 13 gennaio un anno fa cominciava la mia vita pendolare torino milano torino milano torino milano andare e venire per lavorare mi piace il mio lavoro mi piace molto mi dà soddisfazione e stanchezza e insofferenza alle volte e stress ma più di tutto soddisfazione torino milano torino milano mi piace anche lavorare a casa in pantofole mi piace preparare il pranzo e mangiarlo subito senza scaldarlo al microonde mi piace guardare dalla finestra e vedere la luce di Torino mi piacciono i miei ciclamini resistenti e persistenti mi piace la calma e mi piace skype e le videochiamate con la mia collega in inghilterra quella giovane e brava e preparata davvero ha la mia età e un figlio di due anni come diavolo fa io non lo so non lo so questo natale è stato strano questo natale tutti lì a guardarci e dirci eh beh e quando vi date una mossa e che aspettate eh aspettiamo caro lei aspettiamo certo che aspettiamo non se ne parla levatevelo dalla testa tutti e tutti più uno per carità percaritàdiddio ho ripreso la routine sì ho ripreso il corso di yoga il corso di striding il corso in piscina ho ripreso a fare la spesa con tante verdure ho ripreso a preparare il caffè la sera per la mattina e vado in bici vado tanto in bici domenica per dire abbiamo fatto 22 km fino a Stupinigi e ritorno bellissimo una giornata da dio peccato il vento alla fine che fra un po' ci si porta via che poi il vento a torino quando mai manco fossimo a catanzaro forse è stato per darmi un accenno di nostalgia forse chissà forse chissà i miei genitori hanno fatto i biglietti per venire da noi a marzo tre giorni mi ritrovo a consultare il calendario e avere i dettagli fino a giugno o quasi come è possibile come a febbraio roma e venezia a marzo i miei ad aprile pasqua con mio fratello (forse) poi il torino comics che quest'anno si cosplayzza alla grande ma prima (forse) scendo di nuovo a catanzaro magari un weekend e poi ancora salamanca e forse barcellona e poi la puglia a giugno ma a maggio c'è la fiera del libro che fai te ne scordi ed ecco è un attimo che devi programmare le vacanze estive una pazzia insomma una pazzia mi va di stare ferma mi va di vivere casa mia casa mia per piccina che tu sia non vai quasi più bene dobbiamo cercarne una nuova che per caso qualcuno di voi vende casa in zona porta susa massimo massimo zona tribunale? qua le chiacchiere stanno a zero tocca cominciare a cercare immobiliare.it come pagina iniziale e via ecco non so se ne saremo capaci non lo so e un po' ho paura un po' mi sembra una cosa più grande di noi ma non sia mai che ce ne stiamo troppo tempo con le mani in mano non sia mai che ci annoiamo quei due giorni e due notti no no non fa per noi e allora di che ti lamenti ma no di niente è che era un po' che non scrivevo e dovevo aggiornare tutti ma tutti chi tutti quelli che passano che sia uno che siano cento poco importa ora va meglio ora sì posso tornare al dondolio al barcollamento frecciarosso dovrei essere arrivata e non lo sono sarà in ritardo eh sì sarà in ritardo 'tacci sua magari rileggo sto sproloquio magari sì dai così correggo gli errori di battitura e mi rilasso e poi collasso e metto un punto punto.